Se non apriamo al nucleare, siamo fritti - Tempi

2021-12-27 02:28:45 By : Ms. Lina Zhan

Vladimir Putin ha riaperto in parte rubinetti del gas ma questo non è abbastanza per mettere a riparo l’Europa da una delle peggiori crisi energetiche degli ultimi decenni. Pesano certo le pressioni per il completamento per il gasdotto Nord Stream 2, il gasdotto che dovrebbe portare il gas russo nell’Unione girando al largo dal pantano ucraino, ma anche la politica energetica europea completamente sbilanciata verso solare ed eolico, la cui produzione è letteralmente in balia degli eventi. Atmosferici.

«Siamo arrivai a dei livelli di umiliazione come Unione Europea — spiega Gianclaudio Torlizzi, esperto di commodities e fondatore della società di consulenza T-commodity — le conseguenze dell’adozione delle attuali politiche climatiche sono, da un lato, mettere il mercato europeo a rischio di continue crisi energetiche, ma anche di ridurne ulteriormente lo standing geostrategico. Il fatto che siamo qui a pregare Putin di darci un po’ di gas rappresenta una grande sconfitta da un punto di vista diplomatico oltreché energetico per l’Unione Europea. Putin gioca la sua partita per il gasdotto molto bene: ora ha aumentato i rifornimenti per non fare la parte del lupo cattivo».

Che la Russia giochi la propria partita a scacchi col mondo anche sul piano energetico non è cosa nuova, la differenza rispetto al passato è la posizione dei suoi clienti che, sulla spinta della decarbonizzazione e l’adozione massiccia di sistemi di produzione legati al sole e al vento soggetti a picchi e altrettanto naturali cali della produzione, sono molto più vulnerabili di un tempo.

Per sostenere una produzione “pulita” e limitare gli scompensi legati al meteo delle rinnovabili, il gas ha progressivamente guadagnato il centro della scena per la relativa facilità di produzione, trasporto, stoccaggio e impiego al prezzo di una rinnovata dipendenza energetica.

Non più solo sceicchi petrolieri a cui baciare la pantofola ma zar e oligarchi gasieri non meno volubili a regolare i flussi delle nostre importazioni. «Le altre fonti non riescono ad arrivare a livello russo — continua Torlizzi — anche gli americani avrebbero potuto sfruttare questa fase per sostituirsi ai russi, ma non ci sono riusciti perché i produttori locali non sono controllati dallo Stato e nel momento in cui i buyer asiatici son stati disposti a pagare più degli europei, lo shale gas è andato tutto in Asia. Più si diversifica e meglio è: se l’Italia è oggi in una situazione migliore della Germania sul fronte delle riserve di gas lo deve ai paesi del Nord Africa, in particolare all’Algeria che ha aumentato notevolmente le esportazioni».

Se il petrolio inquina e il gas ci rende comunque dipendenti dall’estero, le alternative non sono poi molte. Ci sarebbe l’idrogeno ma produrlo richiede energia che, se non generata da fonti rinnovabili, non lo rende sostenibile e il nucleare.

«Il nucleare dovrebbe essere al centro del dibattito — mette in chiaro il fondatore di T-commodity — siamo forse l’unico paese in cui abbiamo nella testa solo gli incidenti di Fukushima e Chernobyl senza contare che sono oggi disponibili nuove tecnologie contraddistinte dagli small reactors, impianti più piccoli di quelli tradizionali, con il vantaggio per noi di richiedere molta acqua di cui siamo ricchi».

Che il nucleare stia tornando di moda è un dato di fatto: persino la politica italiana ha iniziato a sondare il terreno con qualche dichiarazione ad effetto e, sul piano internazionale, l’attivismo della Francia non è passato sotto silenzio.

Anche i grandi della finanza iniziano ad interessarsene, prova ne è il recente investimento del finanziere Warren Buffett e di Bill Gates in un nuovo tipo di reattore in Wyoming, lo stato ai vertici della produzione carbonifera in America.

«Sarà interessante vedere che piega prende il dibattito in Germania — ragiona Torlizzi —. La Francia si è schierata apertamente per il nucleare. Approvare il Nord Stream 2 rappresenta comunque una forzatura rispetto alla normativa europea che non prevede che il proprietario di un gasdotto sia il suo principale fornitore. Da questa partita la Germania uscirebbe comunque sconfitta: senza gas o indebolendo la normativa europea».

Una posizione quella tedesca non meno difficile di quella italiana, legata però ad un referendum: dopo aver recentemente annunciato il proprio abbandono al nucleare, il rischio è quello di avviare una spirale d’insicurezza energetica che neppure la prima potenza economica europea può permettersi.

«Quando l’Italia è in difficoltà, compra energia dalla Francia: dire di no al nucleare ci ha messo nelle loro mani. Per come si stanno mettendo le dinamiche geopolitiche chi ha la materia prima avrà uno status sempre più forte, lo stiamo vedendo anche nelle posizioni “da bullo” che sta avendo la Francia nei confronti dell’Inghilterra sulla pesca: se non viene estesa l’area di pesca, noi vi tagliamo i rifornimenti energetici».

La fase di ripartenza generale dopo la pandemia ha spinto al rialzo i prezzi dei beni e delle materie prime a cominciare dai carburanti.

Chi in passato si è lasciato sedurre dalle lusinghe del metano ne sa qualcosa: il carburante natural per antonomasia, infatti, è schizzato rapidamente da meno di un euro al kilo oltre i due, rendendolo insostenibile anche per i tanti autotrasportatori che l’avevano preferito al gasolio per i loro camion e furgoni.

Se i più ottimisti parlano di una progressiva normalizzazione dei prezzi nei prossimi mesi, sono in molti a pensare che i rincari possano continuare per tutto il 2022 arrivando a compromettere in parte la ripresa. Il rischio è che finiscano per recidersi le lunghe catene del valore che legano fra loro i mercati e che si sono via via create negli anni della globalizzazione.

«Siamo davanti ad un ciclo inflazionistico di lungo termine che viene sottovalutato per due motivi: la spaccatura delle supply chain a livello mondiale e dalla disfunzione del mercato del lavoro che, al di là dell’andamento del prezzo delle commodity, alimenteranno l’inflazione — conclude Torlizzi —. Sarà sui salari che si baserà la tenuta del sistema europeo: il modello economico europeo si fonda sulla bassa inflazione, se si alzano i salari si sballa quel modello basato sulle esportazioni a basso costo».

Le posizioni europee sul clima rischiano, insomma, d’essere velleitarie se non accompagnate da una politica energetica che tenti anche di limitare i rally dei prezzi oltre alle emissioni, soprattutto in un contesto globale in cui gli altri Paesi sono tutt’altro che ideologici: l’India rinvia gli impegni sulle emissioni al 2070, la Cina torna a produrre in un mese tanto carbone quanto la Polonia in un anno e pure il New York Times inizia a chiedersi se gli Stati Uniti siano davvero pronti alla sfida della mobilità elettrica.

Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994

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